venerdì 30 giugno 2017
Piccolo Uomo
Sei entrato puntando i piedi e adesso corri così forte che fatico a starti dietro.
Avanti tutta, anima bella!
giovedì 29 giugno 2017
L'amore è una cosa semplice - parte seconda
«Nic, che hai fatto oggi a scuola?»
«C'era l'Adele.»
«Mh. C'era anche l'Amelia?»
«Sì.»
«E che hai fatto con l'Amelia?»
«L'ho baciata.»
«Mh. E con l'Adele?»
«L'ho baciata.»
[ride di una risata maschia che mi fa accartocciare le budella]
«Perché ridi?»
«Ho giocato con l'Adele e l'ho chiamata Amelia.»
«Mh. E lei rideva quando l'hai chiamata Amelia?»
«No. Aveva la bocca dritta dritta.»
«E tu che facevi?»
«Ridevo.»
«E ti sembra giusto ridere mentre uno ha la bocca dritta dritta?»
«Sì.»
«No, invece, non si deve ridere se uno ha la bocca dritta dritta.»
«Ma non ridevo solo io!»
«Ah, no? E chi è che rideva con te?»
«L'Amelia.»
Domani è l'ultimo giorno di scuola. Dio ti ringrazio.
«Mh. C'era anche l'Amelia?»
«Sì.»
«E che hai fatto con l'Amelia?»
«L'ho baciata.»
«Mh. E con l'Adele?»
«L'ho baciata.»
[ride di una risata maschia che mi fa accartocciare le budella]
«Perché ridi?»
«Ho giocato con l'Adele e l'ho chiamata Amelia.»
«Mh. E lei rideva quando l'hai chiamata Amelia?»
«No. Aveva la bocca dritta dritta.»
«E tu che facevi?»
«Ridevo.»
«E ti sembra giusto ridere mentre uno ha la bocca dritta dritta?»
«Sì.»
«No, invece, non si deve ridere se uno ha la bocca dritta dritta.»
«Ma non ridevo solo io!»
«Ah, no? E chi è che rideva con te?»
«L'Amelia.»
Domani è l'ultimo giorno di scuola. Dio ti ringrazio.
mercoledì 21 giugno 2017
{POST SENZA PUNTEGGIATURA [che tanto non la so mettere e quindi]}
ma noi la mamma montessoriana che al buffet dell'albergo mette la pinza in mano alla bimba di un anno con l'intento di farle prendere i pisellini e intanto coordina tutto il alto tedesco antico ma a noi si rivolge in veneto con un la fa tuto da soa quanto cazzo la amiamo
lunedì 19 giugno 2017
Game Over
«Le regole, darsi delle regole», dice il Papi.
Sfortunatamente non si è buttato in politica, perché la forza di certi suoi
diktat si sgretola subito davanti ad un qualsiasi videogioco popolato da zombie
e nutrie in decomposizione, ecco perché credo che sarebbe stato un ottimo
ministro, perché l'occhio da bue messo in sella al trattore gli è esploso
in faccia solo dopo aver espresso il seguente pensiero
«Basta sala giochi!
Adesso andiamo all'altalena! All'aperto! All'aria! All'ombr... oh, ma guarda ci
sono gli zombie...»
Predire, dire, ridire, contraddire, eccole le meraviglie dell'essere genitori.
Poi vabbè a quelli bravi non succede mica di farsele fuori tutte le fasi dello
splendore e del disappunto, ma questa è un po' la cinquantunesima sfumatura che
nessuno conta mai.
Quelli bravi, genitori, col predire sono già a posto; quelli bravi sono bravi
punto e, fateci caso, si muovono bene in gruppo; esercitano il medesimo sguardo
vitreo; da lontano ti indicano con la mano alzata e gorgheggiano - sì, lo so,
ho detto gorgheggiano - e si accartocciano pure un poco dentro a quel loro
frenetico gesticolare.
Come gli zombie, appunto.
Ma per fortuna io c'ho il Nic adesso che ci spara addosso agli zombie - sì, lo
so, ho detto ci spara - e usa palline di gomma fluorescente e lo fa mandando in
aria risate e, si sa, fa più vittime una risata che una pistola laser - sì, lo
so, gli zombie sono già morti - vabbè, per fortuna che c'ho lui, ecco. Ma non
ditelo al Papi, eh, non diteglielo che fa leggi evanescenti perché magari
prende coraggio e si butta sul serio in politica. Ecco, no, mi manca solo
questo, dai. Poi chi li sente i detrattori della PlayStation appesa in classe
al posto del crocifisso. Chi li sente, mh?
E dire che pure io sono stata una brava genitrice, una volta, un po' come
Cenerentola è stata una colf e Biancaneve una drogata, ma è stato tipo quattro
anni fa, è stato tipo quando ero un'altra, è stato tipo quell'attimo prima di
mettere al mondo mio figlio.
mercoledì 3 maggio 2017
Insegnare il dolore
Forte. Ti dicono che devi essere forte, ma non ti insegnano
il dolore. E allora cresci educato, ma scoperto. Il pianto non conosce
dignità, le ferite non si rimarginano subito, alcune non si chiudono affatto.
Sono stata educata a non considerare il male e il capro espiatorio era sempre
il buon cuore di chi mi stava a guardare. Poi ho avuto un figlio e mi hanno
detto che non mi potevo più pulire gli occhi, che i fazzoletti erano per il
moccio al naso, il suo, e che io - la mamma - dovevo ripiegare sulla
plastica di un sorriso perenne.
Sono stata rammendata tante volte e a forza di tenerlo dentro - il pianto - mi si è deformata la faccia. La mandibola è massiccia, le rughe sono diventate profonde. Mio figlio sa esattamente quando sto per piangere anche se non lo faccio. Si avvicina e mi pianta il naso sotto il mento, con la mano destra mi tiene l'orecchio destro e restiamo così, in silenzio, per un po'. Qualche volta piango io, qualche volta piange lui. E non siamo soli, mai.
L'immagine sopra è tratta dal libro Perché piangi, mamma? - Emme Edizioni.
mercoledì 19 aprile 2017
Le paure che non ti ho detto.
Eh, sticazzi, sì. La vita è un percorso a ostacoli dove per
sopravvivere devi solo fare due cose: maturare prontezza di spirito e imparare
un sacco di parolacce. Ecco io sulla seconda ero preparatissima, sulla prima un
po’ meno, decisamente meno. Ma tant’è che ci si indottrina in qualche modo,
pure nell’urgenza. Ecco, io adesso - per essere del tutto sincera e farvi
capire quindi come ci si sente nudi di qualsiasi poesia o religiosa credenza -
sono oggettivamente provata. C’ho tutti i muscoletti del cervello che urlano e
le fibre nervose perennemente in allarme. Ma niente paura, se sto messa come un
cubo di Rubik a cui hanno scollato le tesserine è anche perché il cerchio deve
chiudere il suo giro. Se vi venissi a dire che sto bene, benissimo, mentirei
spudoratamente e solo in virtù di una bella messa in onda, di una facciata
disonesta, di una tranquillità imprudente. In verità, in verità vi dico, che
sto ‘na chiavica. Il corpo reagisce e direi pure bene, ma la testa arranca. La
paura intacca lo spirito e c’è poco da fare, o accetti la sganasciata del
destino o ti metti lì in attesa che tutto prima o poi passi sul serio.
Ecco,
io sto in quel preciso frangente in cui l’attesa pare eterna. Sto in bilico sul
ciglio della sedia ad accusare ogni colpo di tosse come un attacco di
tubercolosi. Sto in allerta dietro la porta ad aspettare l’iperventilazione.
Sto affondata in quel preciso istante della notte in cui ogni ombra diventa
demone. Nessuno mi ha detto che devo stare lì, sia chiaro, ma ci sto uguale.
Questa è la vera verità: la paura è un fil di ferro che ti taglia in due il
cuore, e ogni ferita - si sa - non smette di sanguinare subito.
Lo
so, dovrei fare come fanno i cani, scrollarmi la pelliccia e sparare lontano
tutte le minuscole merdine che mi si sono appiccicate addosso. Lo so, ma il
punto è che non sono neppure un cane e la mia superficie è assurdamente porosa.
Io delle emozioni tiro dentro tutto, aspiro e mando giù senza darmi il tempo di
capire. Liberarsi del proprio sentire è un lavoraccio che comporta fatica e
rivoluzioni. Autentiche rivoluzioni. E chi ce l’ha sempre la forza di mettersi
a fare casino? Io sì - di solito sì - ma mi viene bene da sbronza, da euforica,
da incazzata, quando sto a metà strada tra la stanchezza e la lucidità di
spirito mi perdo come si perdono tutti.
C’è
però una cosa che mi salva sempre e di questa cosa certi giorni vado fiera,
certi altri no. Io tra il fegato e il pancreas ho installato un autentico
laboratorio di alchimia. Piastrellato di verde sta tutto affollato di ampolline
fumanti. Ecco, in quel minuscolo ambiente lì, dove l’aria è irrespirabile e il
fuoco pare portarti via il naso si rielaborano le emozioni. Non ci si mette due
attimi a trovarla la pace, ce ne voglio pure quattro o cinque di attimi e una
sana consapevolezza che quel disordine umano è tanto indisciplinabile quanto
prezioso. Dal laboratorio ogni ventisei o ventisette attimi escono delle
sottili asticelle d’oro, oro purissimo. Ho tutta una struttura interna che è
popolata di pagliuzze luminescenti pronte a piegarsi sotto il peso del mondo.
Io sono un cantiere aperto dove entra la luce senza uscirsene mai e mi scompongo
e destrutturo ogni volta come se fosse la prima e non sarò mai ultimata neppure
il giorno in cui penserò di esserlo.
E,
niente, ringrazio Eilish per aver generato questa creatura. L’ho acquistata
pochi giorni prima dell’intervento, volevo qualcosa che sostituisse in tutto e
per tutto la mia tiroide. Tra un diamante grosso come un molare e uno slogan
per una campagna elettorale ho scelto lo slogan, anzi no, la parola, anzi no,
la parolaccia. Che a me le parolacce calzano tutte dannatamente bene. Quindi,
sticazzi gente che se una è figa ‘n c’ha proprio le forze di smettere di
esserlo, pure col collo di Maria Antonietta, pure con l’abbronzatura del sovrano
della Valacchia, pure con l’umore di Darth Vader.
Ah
Ah
Ah
lunedì 3 aprile 2017
CARCINOMA. Il peso di certe parole.
Carcinoma è una parola brutta, come brutto è il suono che produce quando qualcuno se la fa passare in bocca. Con un’altra parola come - chessò - pantolofola ci si muove meglio, molto meglio. Pantofola è un termine morbido, lo mastichi come una gelatina di frutta e le consonanti non ti si infilano tra un dente e l’altro come pezzi di vetro.
Vabbè, questo per dire che
la mia tiroide ha deciso di dare ospitalità a taluni elementi poco graditi e
lo ha fatto a mia insaputa. Ecco perché ho deciso di sfrattarla senza
preavviso, che di tutti gli atteggiamenti cazzuti questo mi pare proprio il più
solenne. Del resto per un inquilino che non rispetta i regolamenti si applicano
sanzioni doverose e quindi «bye-bye little butterlfy, go away e passa la pezza
prima di chiudere».
Detto questo – e tutto d’un
fiato, che se replicate in coro vien qui Trump a controllare – voglio precisare
che sto bene. Non voglio quindi vedere emoticon piagnone, volpine affrante o
panda impiccati a uno Stecca Lecca, così come non voglio sentirmi sul collo il
peso di certi sospiri. Sono settimane che vivo in mezzo a una costante corrente
emotiva e c’ho i reumatismi che mi trapassano il cuore, credetemi. L’ansia
degli altri è pesante da sostenere, più della propria. Non che l’indifferenza
sia una passeggiata di salute, eh, ma questa è un’altra storia e merita un
passaggio a nord-ovest che in questo momento non riesco ancora a praticare.
E allora lo scrivo dentro a
un post, con il solo intento di dirlo a tutti senza guardare negli occhi
nessuno, perché la paura che si manifesta in mezzo alle ciglia degli altri
indispone quasi quanto la noncuranza e io, in questi mesi, ho fatto una
fatica disumana nel tentativo di sganciarmi dal senso di responsabilità che mi
lega alle persone. È un attimo sentirsi in colpa pure se non hai fatto
niente.
Per giorni ho portato
avanti la convinzione che dentro alla carte che maneggiavo non ci fosse il mio
nome, che la cosa di cui tutti discutevano non mi riguardasse affatto. Per
giorni mi sono convinta che non poteva essere vero. Ho sempre avuto il
controllo di tutto, perderlo mi pareva impossibile, inumano. E così ho messo in
pratica quello che fanno certi animali feriti, mi sono allontanata, ho lanciato
i chilometri a mio figlio, perché di tutte le interrogazioni le sue mi
sembravano le più insostenibili, ho finto come non ho mai finto in vita mia,
perché ogni lacrima che disperdevo pareva fatta di amianto e il terrore che gli
altri ci morissero dentro a mie spese era sempre troppo alto.
Carcinoma è un sostantivo.
Un sostantivo che ho sempre evitato di usare. E così adesso lo scrivo qui, per
esteso, con il solo intento di ridistribuirne il peso, con la sola volontà di
concedermi alla comunicazione facile e immediata. E poi devo lasciar fare al
cursore quello che non sono riuscita a fare per mesi: domare le coniugazioni,
ricollocare gli aggettivi, misurare gli avverbi. Le parole sono difficili da
gestire - l’ho urlato per giorni con una rabbia feroce che non sapevo gestire -
ma l’errore mi guardava da sotto in su mentre stavo lì a dondolarmi sul ciglio
del pregiudizio. Le parole sono l’opportunità che ci concediamo, che molto
spesso neppure vediamo e possono essere leggere, pure quando sono brutte e
sbrecciate, e possono volare in aria come farfalle pure dopo che le abbiamo
accusate come proiettili.
Quindi, questo è.
Ho sfrattato quella
sfaccendata della mia tiroide e ricominciato a mettermi il fondotinta fin
dentro ai calzini.
So che qualcuno in queste
settimane ha faticato a riconoscermi, perché ho smesso di adattarmi agli altri,
ho smesso di dire la cosa giusta in virtù del comportamento sbagliato, ho
smesso di curare le debolezze, di accudire, ho smesso di essere quella che
mi imponevo di essere. Qualcuno per questo si è allontanato, ma va bene, non
tutti sono come me e, per contro, io non posso essere come gli altri. E questa
consapevolezza – credetemi – di tutte le cure mi pare la più
efficace.
Quindi, amicici, pregate
per me, ma non nel senso religioso della questione, fate che sia una preghiera
corale in cui vi (e mi) augurate una sola cosa: che il vaneggiamento
perduri e lo scazzo pure, che io da placida sono noiosa e da buona per nulla
intrigante.
E comunque, nel giro di
qualche settimana tornerò più bella che mai, quindi se mi incrociate sotto
l’arco di un semaforo o tra i petti di pollo del supermercato mollate il
Labello rosa che divorate con così tanta insistenza e passatevi sulle labbra
dello scotch da cantiere, che la mandibola è un attimo che si sfracelli al
suolo e la meraviglia, si sa, genera sempre stupore.
Io ve lo dico, poi – come
sempre – fate un po’ quel cazzo che vi pare.
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