giovedì 25 dicembre 2014

Buon natale. Comunque.

Un anno fa, a quest'ora, noi si tornava a casa dal pronto soccorso. Tutti con la gastroenterite e un Polpetta piccinopicciò che ci costringeva ad abbandonare la tazza del cesso per pulire un culetto che non la smetteva di dire la sua. Un'immagine non proprio natalizia, direte voi. E c'avete pure ragione. Ma il Natale di merda prima o poi arriva.

Passa un anno, la vita accade, continua a improvvisare i suoi giri acrobatici. E ti ritrovi così ad armeggiare con situazioni difficili, dolorose, e ti guardi indietro e pensi che la gastroenterite dell'anno prima era stata alla fin fine una gran bella figata e che, se te ne dessero l'occasione, faresti pure a cambio, perché pure sto giro il signor Babbo Natale non c'ha capito un cazzo.
La tristezza capita, anche a Natale.
Ci sono momenti dell'anno in cui il cuore pompa a mille e se devi amare ami di più, perché è Natale e, per contro, se devi essere triste lo sei di più, sempre perché è Natale.
E non è vero che se hai un bimbo piccolo viene tutto più facile, la vita ti passa accanto e la lasci andare in virtù di quell'esserino e le sue prime meraviglie, non è vero. La vita in certi momenti fa schifo uguale. Specie se è Natale. Perché se manca una persona, se manca un affetto, se mancano degli elementi che il tuo sangue cerca, la voragine si spalanca e il cuore si sbreccia.
I luccichii degli alberi a festa abbagliano le emozioni. Tanto sorridi, tanto investi, tanto ci credi. Tanto soffri, tanto ti fai fregare, tanto ti perdi.

Il Polpetta dorme nel suo lettino, i regali lo aspettano sotto l'albero, attendo il luccichio dei suoi occhi per concentrarmi, aggrapparmi, perdermi dentro quel violento bagliore d'amore che compensa, e qualche volta, trascina via anche il dolore. Lo prenderò in braccio, ci concentreremo insieme, e con la forza di quel pensiero accarezzeremo i profili meravigliosi di chi ci manca così tanto. Alle volte funziona, dicono. Vi farò sapere.

Buon nataleComunque.


lunedì 15 dicembre 2014

Dell'amore e di altri demoni.

I giornali li vedo di sfuggita, la televisione la guardo di notte. Ogni tanto arrivo da mia madre che mi racconta del tale che ha ucciso la tale, guarda caso sua moglie, perché voleva andare a vivere con l'amante. O della tale che ha ucciso il figlio e che poi ha deciso di farla finita. O dell'altra ancora che il figlio sembra gliel'abbiamo ucciso, ma è indagata uguale, perché si sa che una donna con un'adolescenza piena di buchi poi un figlio te lo ammazza come se fosse niente. Resto sempre, ovviamente, basita e mi chiedo, mi interrogo, ma raramente trovo risposte adeguate.
Poi navigo un po' e scopro che i processi si fanno in rete, tra gente che invece di starsene lì a far bollire il ragù, si pialla il cervello davanti alla D'Urso, oppure se ne sta lì col didò del figlio a costruire plastici per i quali, il buon Brunino Vespa, darebbe in cambio tutti i suoi nei. Poi, per chiuderla in gloria, ci si piazza davanti al pc e si spara una sentenza dentro un post di due righe. In tre lo condivideranno, otto lo commenteranno, dodici lo leggeranno, e questa attenzione ci monterà dentro un piacere immenso e ci sentiremo furbi, intelligenti, meravigliosamente giusti. E allora inizio a vedere dove stanno i buchi.

Ve la ricordate voi la vecchina del paese? Quella che se ne stava seduta sulla panchina e raccoglieva i discorsi di tutti e li riportava all'altra vecchina che stava sulla panchina dell'altro paese, e che ne sapeva un altro pezzo ancora di storia, e che quindi era chiaro che la colpa era sua, della donna, mica del marito, perché o fai la moglie o fai la puttana. Che poi il marito beveva, si sapeva eh, mica era una novità, ma poveretto che altro poteva fare?

La gente deduce, teorizza, pratica sentenze.
Le trame familiari sono ricche di toppe e strappi malricuciti, e alla gente piace parlarne, la gente accusa quello che non riesce a sanare.
E allora una madre come quella di Ragusa spaventa, terrorizza, inorridisce. Perché le famiglie a natale scartano pacchetti d'amore, mica di odio reciproco. E perché tutti preferiscono allontanarsi da certe storie, cacciarle indietro, accusarle e renderle così distanti. E allora via a postare la foto del lucente albero di natale. Poco importa se dietro a quell'albero c'è una donna infelice, l'importante è poterci mettere un like e dei cuoricini. E giù a condannare, insultare, generare demoni, se poi quella stessa donna annega dentro sé stessa, perché l'importante è dirlo che noi non siamo come lei, che noi siamo migliori, unici, e soprattutto giusti. E i nostri amici col pollice alzato ci danno ragione, e quindi: smile.
Questo è il nostro senso delle proporzioni e questo è quello che non ci permette più di capire che con le stesse misere proporzioni manipoliamo il bene e il male. Perché il profilo di facebook se non ti piace lo cancelli. Instagram lo disinstalli. Tutto quello che produciamo è mobile, ma la comprensione, quella che noi donne spesso ci priviamo di praticare, è quella che dovremmo insegnare ai nostri figli in pianta stabile e con la stessa forza con cui ora condanniamo qualcuno tanto per il gusto di occupare due righe di vuoto umano, dentro ad uno spazio dolorosamente inumano.

venerdì 28 novembre 2014

Outing 1.4

Io sono per l'allattamento al seno e si è capito, il Polpetta ha venti mesi e cerca, chiama, esige la tetta. Bene.
C'è da dire però una cosa, una piccolissima cosa.

Ci sono in giro certe talebane del capezzolo gocciolante che terrorizzano le puerpere in fase di assestamento ormonale imponendo un assolutismo che farebbe invidia a Federico II di Prussia. Bene.

Dato che l'allattamento al seno ha una serie di regole ferree da rispettare affinché tu possa produrre più latte, c'è da dire un'altra cosa - e la dico io, mica l'OMS - che se sei serena, se ti piace, se ci provi gusto, tutti sono più felici, ma se invece ti scoglioni, non stai bene e sei nervosa come un mamba nero dell'Africa centrale hai tutte le sante ragione di mollare.

E alle talebane di cui sopra, che mettono al rogo ciucci, biberon, e madri a mazzi di cinque alla volta, auguro solo che si possano giostrare tra i denti aguzzi di mille bambini pronti ad azzannare tette come vampiri scevri di qualsiasi pietà.

mercoledì 26 novembre 2014

INSTAGNAM Le ricette di Mamma Mad



Il Papi in un'altra vita era uno scimpanzè, o giù di lì. Compra le banane al posto del pane. Ne mangia due al giorno. Le acquista a caschi e rientra a casa come un giovane Tarzan in cerca di ristoro. Riempie il centrotavola, ne mangia una o due e poi decide di giocare al pistolero col Polpetta e così, alla fine, io mi ritrovo il cesto della frutta che sembra un Caravaggio indisposto.

Le banane rimangono lì e io devo buttarle perché non so mai che farne. Bene! Oggi risolviamo il problema! Mamma Mad ci da la ricetta di questo squisito plumcake alle banane che, oltre a farvi smaltire le famose banane mature che nessuno mangia mai, sazierà a dovere gli eventuali gorilla che popolano la casa.


PLUMCAKE ALLE BANANE

420 gr di farina
60 gr di zucchero
2 cucchiaini di polvere lievitante
1/2 cucchiaino di bicarbonato
1/4 di cucchiaino  di sale
2 o 3 banane molto mature
60-80 gr di burro
2 cucchiai di latte
2 uova

Sbattere uova e zucchero. Aggiungere il burro fuso fatto raffreddare e le banane schiacciate con la forchetta, o meglio ancora frullate con il latte (suggerisco latte di riso che è dolce).
Aggiungere la farina e per ultimi bicarbonato, lievito e un pizzico di sale.
Imburrare uno stampo da plumcake e infornare a 180 gradi per 30-40 minuti.
Fate la prova stecchino per verificare la cottura.

lunedì 17 novembre 2014

La mammitudine, ovvero come lasciarsi infettare da un figlio.

Ero convinta, giuro, che non mi sarebbe mai successo. Accendevo l'autoradio e mi imbattevo nell'album post-partum della Nannini e pensavo "eccone un'altra che si è riconglionita" e ovviamente lo dicevo con una nota di disprezzo, perché le canzoni non mi ricordavano neppure lontanamente la Nannini folle e mascolina della mia adolescenza. Poi cambiavo frequenza, incrociavo la nuova canzone di Elisa e dovevo spegnere di botto, perché mi scendeva la pressione al punto che era un attimo uscire di strada e stamparsi contro un muro. Anche lei, madre da poco, accusava artisticamente la presenza di ben due figli.
Poi è nato il Polpetta e, per non incorrere in errori di sorta, mi sono tenuta distante dalla scrittura per un certo numero di mesi. Tra una poppata e l'altra l'ormone entrava in fibrillazione e guardavo mio figlio sospirando con occhi da gatta in calore. Una mattina mi sono scoperta in bagno che canticchiavo la Pausini e lì, davanti allo specchio sporco di dentrificio, mi sono guardata con orrore.
Ma ancora non ero convinta, ancora speravo di potercela fare.
Due giorni fa, invece, controllavo la bozza di un testo a cui sto lavorando da mesi e scoprivo che in 30 pagine ero riuscita ad infilare la parola mamma per ben 10 volte. E il testo non doveva parlare di madri! Questo è il punto che oserei definire drammatico. Eccomi dunque davanti al male supremo di ogni creativo: la sbandata. Che sia amore, droga, o un figlio dunque. Ero convinta che non mi sarebbe mai accaduto e invece ora mi ritrovo a stabilire una diagnosi.
E' vero. Sono affetta da mammitudine.

Sono chiaramente schiava del Polpetta e spero di esserlo ancora per molto tempo, perché questa schiavitù mi ha guarita dalla frustrazione di essere talmente libera da dovermi sentire sola.
Spero di avere il tempo di vederlo andare via di casa un giorno e di poterlo salutare con un bacio. Spero che i miei spazi vuoti continuino a riempirsi da soli con i miei tasti pigiati sul pc e con la pace che avverto negli echi del mio cuore gonfio di mammitudine. Spero che la serenità non mi abbandoni nei momenti più importanti per mio figlio, nei momenti più importanti per me. Perché oggi la mia lucidità mentale sta tutta lì, dentro le pieghe del suo collo, e lì sta anche la mia serenità e sono concetti che vanno di pari passo. Un domani non so, non so cosa mi aspetta, forse di mammitudine si muore, forse invece si cambia un'altra volta e si diventa altro ancora.
Il trucco sta nell'accettare il cambiamento. Un figlio ti toglie un sacco di cose, cose che rimpiangi, ma te ne restituisce altre che non riuscirai mai a spiegare a chi figli non ne ha.
Ecco, io non avevo figli, e mi schifavo parecchio di chi ne aveva. Ora se mi guardo con gli occhi di allora mi schifo con lo stesso trasporto, ma la risata che mi esce in contemporanea sancisce la pace interiore che ho ora nel rileggermi così schifosamente mamma e così schifosamente felice.

venerdì 7 novembre 2014

Grazie, signorina Grey.

Rientro da un lungo periodo di pausa blog. Impegni importanti di cui spero di potervi parlare a breve. Avevo meditato di affidare la gestione dei post al Papi, ma temevo una sua ritorsione nei miei confronti e il rischio era effettivamente altissimo. Avevo anche pensato di assoldare delle mamme collaborative pronte a darmi il cambio nella narrazione, come succede in piattaforme più importanti della mia, ma ritagliarsi del tempo per scrivere non è cosa facile e quindi ho accantonato l'idea. Perché scrivere è un po' come uscire apposta per comprarsi un cerchietto, pensi che ti piacerebbe un casino, ma poi decidi che puoi farne a meno. Il bambino deve cenare alle sette in punto; devi fare la spesa; devi presentarti al lavoro - quello retribuito - e tra i devi e puoi, si sa, che ad averla vinta sono sempre i primi. Quindi niente cerchietto e giù capelli tra gli occhi, e giù pensieri.
E allora, quando non riesco a scrivere, quando mi vorrei rapare dalla testa tutte quelle nostalgie spinose, quando mi prude un po' il cuore e non so come grattarmelo a fondo per far sparire la smania, arrivo a casa e inizio a raccogliere i giochi sparsi sul pavimento. Al limitar della pace interiore mi taglia la strada il Polpetta. Sfreccia a bordo del suo quadriciclo, si schianta contro il muro - perché non sa sterzare - e piange. Realizzo che c'è ancora da lavorare, parecchio da lavorare, almeno fino all'ora della nanna.
Ci diamo i turni. Un po' io, un po' il Papi e, al passaggio di testimone, ci fiondiamo sul web e navighiamo, chattiamo, mettiamo due like. Dormiamo. E' il pentathlon della sera.
E poi arriva l'ora X! Coccolina. Canzoncina. Nanna. Ah! Sì! Oh! Nanna.
E così a un certo punto ci ritroviamo da soli, sul divano. Abbassiamo lo smartphone con aria di sfida, insieme, perché due cowboy abbassano sempre le armi insieme e ci fissiamo increduli. Nessun rumore all'orizzonte. Il buio della notte. I giochi sono dentro le ceste, e noi finalmente soli! 
E' così che, consensualmente, consumiamo le ultime fatiche fisiche davanti all'ennesima puntata di Grey's Anatomy! Perché - non me la menate con paternali da Topo Gigio eh - le serie televisive hanno salvato più matrimoni di un giudice di pace! Le serie televisive sono il meglio che due genitori possano chiedere. Il Papi copre i dialoghi migliori con i suoi commenti, io mi innervosisco, gli tiro un calcio, lui ride, mi gratta un tallone, io mi infastidisco e gli ritiro un calcio, lui ride, io rido. E' un rito che vale più di qualsiasi dialogo buttato lì a cazzo. Perché fare del banalissimo sesso, quando puoi startene lì, sul divano, alluce contro alluce, davanti ad una milza spappolata? Niente, io e il Papi dobbiamo molto alla signorina Grey.
Questo volevo dirvi stasera. 
Perché parlare fa bene, ma parlare troppo fa male. Perché alle volte perdersi in due dentro ad un divano, lasciarsi scivolare addosso il silenzio della casa, assaporare il gusto di non doversi rinfacciare nulla, è quasi un bene. E' quasi meglio. E' quasi amore.

martedì 21 ottobre 2014

Papi, ti svezzo in due.

Sì, lo so, da mesi in molti si chiedono che tipo sia il Papi. Beh, ci tengo a rinfrancare i più allarmisti, dichiarando che se il Papi non avesse mostrato fin da subito la sua fredda ironia da eschimese ai tropici, io non lo avrei mai e poi mai preso in considerazione.
C'è da dire che il suo animo, apparentemente così disinteressato alle scene, in realtà è il frutto di una strutturata finzione, perché lui dentro ai miei racconti ci sguazza come un maiale dentro al letame. Lui si farebbe l'editing se solo gliene dessi l'opportunità. E di certi testi teme, teme moltissimo, ma essendo uno che si sparerebbe dentro alla bocca di un leone tanto per capire cosa si prova, affronta il rischio con il brivido di chi resta lì, a mezz'aria, tra la mia pubblicazione e il suo non conoscerne per intero il contenuto.
Questo incipit era doveroso, i maschi sono animali da branco, e c'erano fior fior di padri che da giorni mi fissavano indisposti e gli uomini indisposti non sopravvivono a lungo, pertanto sono intervenuta solo per salvare la specie umana.

Ma torniamo a noi.

So per certo che molte di voi hanno il Bimby e molte altre hanno il Bimby, un marito che cucina, lava, stira e passa il Folletto mentre va narrando al figlio le avventure di Ulisse. Bene, giovani fanciulle che mi auguro possediate anche in natura il gran culo di cui narrate, non mi rivolgo a voi. Mi rivolgo invece a quelle tal'altre donzelle che ogni giorno si avventurano tra gli scaffali del supermercato improvvisandosi giostraie nel tentativo di intrattenere il bambolo che, dentro al carrello, mette costantemente a repentaglio il saldo da pagare alla cassa.
Se c'è una cosa che proprio non riesco a capire invece è il percorso che una mente maschile effettua per arrivare alla medesima cassa del supermercato. Io vado per ordine di arrivo, il Papi invece segue il ciclo dei suoi pensieri e pensa alle uova mentre sfila dallo scaffale la carta igienica, e poi pensa che ha fame e che è dimagrito troppo e che deve reintegrare e allora va al banco della carne e compra tutto ciò che gli sembra commestibile e poi si dimentica che gli ho chiesto per la trentaduesima volta di comprarmi il caffè, perchè - ovviamente - lui il caffè non lo beve mica e allora si compra due ovetti kinder (uno per lui e uno per il Polpetta) e va alla cassa. Fine della spesa.
Eccomi quindi che lo trovo in cucina mentre sbatte in padella una braciola alta quattro centimetri e nel mentre puntualizza che si è dimenticato di comprare il caffè ma in compenso ha preso la cioccolata e che non ha preso la camomilla, ma ha comprato otto bacardi breezer al lime, che aiutano ugualmente la digestione.
E' in momenti come questi, quando lo vedo nascondersi dietro il fitto fumo della terza braciola in cottura, proprio mentre cerco di scollarla dalla padella, che mi chiedo cosa ci sia stato in me di così profondamente folle dall'averlo voluto come padre di mio figlio. E non trovo mai una risposta, una sola intendo. Perché mentre dalla statale il condominio in cui abito viene scambiato per un'acciaieria - tanto è il fumo che esce dalla velux - il Papi inizia a gironzolare per casa a bordo di un minuscolo triciclo e il Polpetta lo rincorre ridendo a perdifiato. Solleticata da quel brulicare di sorrisi avanzo di qualche passo mentre il fumo si dirada, e finalmente incrocio i loro occhi - così uguali, così belli - e ci ricasco ancora!
Il Polpetta si avvicina, afferra un pezzo di carne bruciacchiata e la inizia a ciucciare gorgogliando come un sifone intasato. Il Papi gongola a bordo del suo triciclo, guarda il figlio e si dice che sì, è stato proprio bravo a comprargli quella braciola alta quattro centimetri, che se fosse per lui lo svezzamento partirebbe proprio da lì. Dall'altro lato della cucina mordicchio un quadretto di cioccolata e li guardo con aria da smorfiosa di marciapiede. Mi piacciono esageratamente, fumo d'amore. Anche per il Papi. Anche per lui. Non me ne capacito, ma è così.

Credo. 



mercoledì 15 ottobre 2014

INSTAGNAM Le ricette di Mamma Mad



Io sono un disastro in cucina, già si era capito, ho provato ad affidarmi alle regole dei mille brodini. "Dacci il nostro brodo quotidiano" ripetevo ogni sera. Poi ho iniziato a svegliarmi di notte con l'ansia da carotapatatazucchina e ho deciso di smettere.
Mi sono quindi messa a scavare dentro ai libri. Nessuno era in grado di convincermi, neppure la Parodi che, voglio dire, con quel suo bel tubino color aragosta è riuscita ad insegnarmi che fritta è buona pure una ciabatta. Niente, io dovevo svelare al Polpetta le meraviglie della buona cucina e non sapevo da che parte cominciare! La mia fantasia svaniva nel terrore di quella responsabilità così importante. E poi devo confessarvi un'altra cosa: quando appoggio più di quattro ingredienti sul tavolo il mestolo mi guarda, scrolla la testolona di legno, e se ne torna tristemente nel cassetto.
Poi, ho incrociato altre mamme, quelle che non usano il tacco dodici in cucina, quelle che tolgono i diamanti quando impastano la frolla e ho scoperto le meraviglie della condivisione sociale. Benedetti social network! Perché io grazie a facebook ho conosciuto delle autentiche meraviglie umane e ho trovato lei, Mamma Mad, che come la stella cometa ha dato nuova luce al frigorifero di casa mia.
Certa di fare cosa gradita a molte mamme, proporrò quindi, a più riprese, dei minimenù (siglati dalla sua santa manina) che il Polpetta testa, approva e raccomanda. E il marchio del Polpetta, è inutile dirlo, vale più di un sorriso di Cracco.

RISOTTO SEMI-INTEGRALE ALLE MELE
Fate un soffritto con poca cipolla in olio evo. Tostate il riso con un quarto di mela renetta tagliata a cubetti. Sfumate con vino bianco e aggiungete brodo finché serve. Aggiungete l'altro quarto di mela, tagliata più grossa, due minuti prima della fine della cottura, così resta croccante! Un cucchiaio di grana per mantecare.
Queste sono le quantità per 140 grammi di riso, ma va a piacere!

POLPETTE DI PESCE
400 grammi di platessa in filetto da cuocere al vapore per circa 20 minuti. Tritatela con la forchetta e aggiungetevi poi 2 patate di media grandezza, precedentemente bollite e schiacciate, 50 grammi di pecorino grattuggiato, un pizzico di noce moscata e un pizzico di sale. Pan grattato al bisogno (circa un bicchiere). Lavorate il tutto omogeneamente, formate delle palline di 5-6 cm di diametro, passatele nel pan grattato e fatele rassodare in frigorifero una mezz'ora. Cuocete poi in padella antiaderente, con un filo di olio evo.
La variante col salmone è ancora più golosa!


Già le vedo le mie amiche più giovani, quelle senza figli, che si tuffano sul pentolame nella lussuriosa speranza di trattenere a casa il fidanzato. E la stessa speranza, che però muterà in gioia, la proveranno anche molte mamme davanti al mento sporco di cibo del proprio bambino, le manine collose e gli occhi felici di chi ha mangiato tutto non per dovere, ma per piacere.

domenica 5 ottobre 2014

Sono una mamma, non sono una santa

Potrei scrivere un decalogo sulle scelte sbagliate che una donna può effettuare durante il primo stadio di vita materna, ma ho deciso che non mi darò un limite quantitativo, riportando quelle che faccio consapevolmente e di cui non mi vergogno forse per nulla.
  • il Polpetta guarda la tv mentre mangia. Non sempre. A pranzo invoca la Peppa in prossimità della scaloppina. E' un connubio talmente perfetto che proprio non ce la faccio a guastarlo, rivelando l'origine di ciò che avidamente ingoia. E' un vizietto che spesso, concedetemelo, mi permette pure di mangiare con calma, comodamente seduta. Lui ride, si lecca le dita e non gode solo a metà. Mamma pigra, bimbo sazio.
  • il Polpetta dorme (ancora) in camera con noi. Che non vuol dire nello stesso letto, lui nel suo letto ci sta, ma a un passo da noi, senza pareti di mezzo. Qualche volta ce lo portiamo nel lettone, anche se non ce lo chiede, perché siamo dei masochisti senza vergogna, gente che ama farsi del male e prova un piacere smisurato nell'avere un maschio di tredici kg appeso al lobo dell'orecchio sinistro. Mamma sciocca, bimbo sognante.
  • il Polpetta, 18 mesi (che è la maggiore età per un infante), fa colazione con la tetta. Artificiale, mucca, capra, soia, riso o dinosauro, qualsiasi sia l'origine del latte in questione a lui non interessa, lui è il sommelier del latte e pertanto accetta solo la tetta. Tutto il resto è inutile disperazione. E al mattino, permettetemelo, quando mi alzo incriccata da una notte all'adiaccio (ovvero al freddo, perché se tiro su le coperte lui subito le abbatte con un colpo di tibia), io la forza di togliergli quella meravigliosa fonte di gioia non ce l'ho. Mamma egoista, bimbo felice.
  • il Polpetta ha usato girello e box, e ancora ci gioca. Non ho chiaro il male dell'uno e dell'altro, sono stata bacchettata più volte, ma ascoltavo sorridendo, che non è mai una buona cosa. Sappiate che se mentre parlate sorrido come Barbara D'Urso significa che sto pensando al petto di pollo da scongelare. Posso però dirvi che il Polpetta, sebbene provi ancora ad infilarsi nel girello con la stessa triste speranza con cui io sogno di entrare nei miei vecchi jeans delle medie, gattona come un leopardo affamato e cammina come un'antilope indigesta. Ha delle gambe perfette, cose da far invidia a Valeria Marini, e non soffre di crisi di panico quando entra nel recinto delle galline. Mamma ignorante, bimbo normale.
  • il Polpetta mangia la cioccolata. Io c'ho provato giuro a fargli credere che il mondo senza zuccheri è migliore, ma poi m'ha sgamata con un avambraccio nella nutella e si è messo a fissarmi dubbioso. Io, in risposta, ho finto di non capire, allora si è avvicinato, ha preteso di essere preso in braccio, mi ha dato un bacio leccando i residui di cioccolata che avevo incautamente nascosto tra i baffi e mi ha mandata mentalmente a cagare sostenendo che lui al mondo ci deve stare per un po' e pertanto dovevo mettermela via, perché lui a sta cosa che la cioccolata fa male non ci crede neanche se glielo dice l'Ape Maia. E lui è uno che l'Ape Maia la prende superserissimamente. Mamma degenere, bimbo goloso.
  • il Polpetta risponde ai NO con una grossolana risata. Ma risate portentose, eh, mica sorrisini inutili. Io dico che no! gli occhiali della mamma non si toccano e lui in risposta me li strappa dal naso sguainando una risata che farebbe entrare in analisi Raffaella Carrà. Me lo hanno ripetuto in molti: non sono convincente. Già. E' che alle volte - ve lo confesso proprio - a peggiorar le cose c'è che mi scappa pure da ridere. Cioè lo rimprovero e lui ride. Cazzo! Dai! Su! Dovrei ingoiare i denti per non rotolargli dietro. Mamma incapace, bimbo irriverente.
  • il Polpetta mangia sughi pronti, brodi pronti, pappe pronte. In realtà non accade spesso, quasi mai. Però mi è capitato, questo sì, e l'ho fatto con il senso di colpa della madre inetta, ma il tempo, il lavoro, il luogo sconnesso in cui mi trovavo, mi hanno costretta a farlo. E poi ci sono quei giorni, come oggi, in cui non sto bene e sono a casa da sola e non riesco a imbastire due grammi di carne per me e allora prendo la pastina piccola, il sugo pronto (per bambini eh), otto etti di grana e mangio con lui, quello che mangia lui. E sconto così il peso della mia inettitudine, mentre lui gorgoglia versi soddisfatti, io ingoio a stento il boccone. Mamma impedita, bimbo famelico.
Mi fermo qui, sperando che in alcuni di voi sia maturato il seme dell'assoluzione. Non ho una formula per vivere sani, per educare al meglio, per maturare in modo corretto, però ogni giorno mi prendo il tempo - tutto il fottutissimo tempo (ah. ecco. dimenticavo. aggiungete al di cui sopra il fatto che dico troppe, troppissime, parolacce) - di cui ha bisogno mio figlio per parlarci, guardarlo, sentirlo e, forse mi sbaglio, forse sono ancora obnubilata dall'ossitocina, ma lo vedo felice. E se posso assicurargli qualcosa - per ora - è proprio il mio tempo, perché - per ora - è proprio quello di cui ha bisogno. Perché il tempo non te lo consiglia nessuno ed è la cosa più faticosa da garantire, quella che nessuno ti dice di comprare, quella che tutti dovremmo invece regalare, e regalarci.
Per oggi, ma soprattutto per domani.

Settimana Mondiale dell'Allattamento materno: quando l'amore chiama.


Il primo acquisto fatto dopo il test di gravidanza è stato un biberon. Poi è nato il Polpetta e ho scoperto che il biberon non serviva.
E il Polpetta, a 18 mesi suonati, ciuccia ancora come se non ci fosse un domani.
Io sto bene. Lui è felice.
I conti tornano.

Tutto il resto è noia.

martedì 30 settembre 2014

L'algoritmo del Polpetta

Ho appena compreso che anche il Polpetta ha il suo algoritmo e sto cercando di valutarlo con la stessa freddezza mentale di Zuckerberg.
Sì, lo so, è scontato, me lo avevano già detto in molti, ma il Polpetta era piccolo, così dannatamente piccolo! L'altro ieri aveva due giorni! Si limitava a piangere, scimmiottare, sillabare. Era tutto un dispiegar di bave e sorrisi e se i sorrisi erano i suoi, le bave erano le mie. Perché, sì, io colavo gioia sopra questi suoi declassamenti verbali e il suo prodigarsi così lentamente verso l'arte della comunicazione mi appariva più come un pellegrinaggio che non come un'evoluzione umana. Ero ovviamente fuorviata dai giudizi esterni, dalle dinamiche familiari altrui e poi io volevo parlarci con questo bambolotto che invece si ostinava ad accaparrarsi la tetta, senza chiedere mai il permesso.
Poi è successo. Lo sapevo.
Ieri il Polpetta ha detto merda. Non cacca, no. Proprio merda. E non indicava il vasino, non prendeva possesso del pannolino, no. Scuoteva il telecomando, fissava la televisione buia e se ne usciva con un lapidario merda.
Bene. Ovvio.
Quel merda era mio. Mica suo. Sebbene l'imprecazione maschile, lo sguardo fisso sullo schermo e il telecomando in mano ricordassero più l'origine paterna; la parola, il lemma, l'incauto pensiero era tutto mio. Mio. Mio. Mio.
Io sono una portatrice sana di parolaccia, una che ne fa uso come rafforzativo dei pensieri, una che alle volte forse ne abusa, una che sicuramente spesso ne abusa.
Il punto però è un altro. Che mio figlio sia entrato ufficialmente nella fase del repetita iuvant è cosa piuttosto scontata, non ero pronta, non ci pensavo affatto, ma è cosa risaputa e va bene, ma che mio figlio possa diventare così il mezzo con cui visualizzo tutto quello che transita dalla mia bocca è un qualcosa che non avevo preso in considerazione e convengo che questo un po' mi terrorizza.
Il suo algoritmo è basato sull'assimilazione. Lui osserva e registra tutto quello che gli alito addosso, smista e ridistribuisce. Mi dice che il cane abbaia, no "bau", bau è da sciocchi, la mamma dice "abbaia", non dice bau. Il papà è il Papi, non ci sono variabili e la mamma lo sa perché lo chiama sempre così. Il letto della nanna è giallo anche quando è viola, perché la mamma canta sempre la canzone del letto giallo, mica quella del letto viola, e allora è giallo anche se è viola, rosso o blu. Sempre. Perché lo dice la mamma.

E più mi ripeto, anche incoscientemente, senza valutare il suo ascolto, più si applica nel condividere il pensiero, nel metterlo in bacheca, nel renderlo pubblico e ripresentarmelo poi sotto forma di allegro mosaico infantile.
Lui conosce ogni declinazione del mio profilo. Mi chiama insistentemente ammore. Perché io clicco sulla parola amore una quantità smisurata di volte. Realizzo così che il mio antro di bestia è un posto lugubre e buio dove però, se cerchi bene, ci sono anche dei fiori mai visti, degli squarci di luce pazzesca. Allora lo alzo, lo bacio in fronte, e cestino l'idea del silenzio, perché il suo algoritmo ha bisogno di dati e io sono il suo imbuto, il suo contagocce, la sua maniglia sul mondo. Le parole vanno annusate, ammaestrate, coccolate. Regalate.
Ho una grande responsabilità, lo so. Ecco perché stamattina gli ho insegnato una parola nuova che da qualche ora sillaba lentamente, quasi volesse assaporarne per intero la consistenza.

Li be ro.

Nicolò, questa è una parola da amare. Tienila stretta, portala a spasso, impara ad accudirla. Un giorno la userai e ti aprirà al mondo, quando il mondo si aprirà a te.

venerdì 26 settembre 2014

INSTAMUM Eleonora Manfroni e Noi

acrilico su tela


E' andata più o meno così. Ero in ospedale, avevano appena portato via il Polpetta e stavo aspettando. Lo avevano preso che piangeva e non mi era stato permesso di consolarlo. E il pianto di un figlio fa salire l'altamarea nel cuore di qualsiasi mamma. Era come se mi avessero schiacciata dentro ad un minuscolo vaso. Me ne stavo lì, compressa dentro i miei nove mesi di attesa, a ripercorrere le ore di travaglio che mi scalciavano nuovamente dentro, che mi toglievano nuovamente il fiato.
Al centro di quell'immenso spazio bianco ho capito che sarei stata con lui per sempre, che nulla ci avrebbe mai diviso. E' una sensazione impalpabile, un pensiero difficile da maneggiare.
Il telefono brillava di chiamate, messaggi, avvisi. Non saprei dire quanti mi hanno lasciata senza fiato per quel loro prendersi cura di me, di lui, di noi. Non saprei.
Ne nomino una, ma vale per tutti.
Eleonora ha atteso con noi, a distanza di chilometri.
Poi non lo so come accadono certe cose.
Ha preso una tela e ha iniziato a dipingere, ma non l'ha fatto dandosi un soggetto, una trama, un pensiero, ha seguito l'impulso che il cuore le suggeriva. Tra una pausa e l'altra mi scriveva, chiedeva del Polpetta, chiedeva della mamma.
Di sera, mentre me ne stavo a letto, abbracciata al mio bambino che finalmente dormiva sereno, ho ricevuto un messaggio in cui Eleonora mi mostrava un quadro appena ultimato. Mi sono così trovata improvvisamente davanti a uno specchio, l'abbraccio era il medesimo in cui mi stavo consumando. Si annullavano i chilometri, le distanze, i pensieri. Si perdevano le preoccupazioni, le paure, i confini.
Non so spiegare esattamente cosa accade, ma c'è qualcosa di misterioso tra lo spazio che divide una mamma da un'altra mamma. Spesso ci perdiamo dentro i confronti, le invidie, le paure, ma altrettanto spesso lasciamo che il filo invisibile del nostro vissuto si tenda e attiriamo a noi il sentito di un'altra mamma e ci consoliamo senza dirci nulla e ci abbracciamo senza neppure saperlo. Se accadesse più spesso, credo che ci sentiremmo meno sole.

Grazie ai vostri cuori quindi, tutti. Non uno di meno. Erano con me. E lo sono ancora. Ovunque io sia, ovunque tu sia.

mercoledì 17 settembre 2014

Notte prima degli esami


Avete presente quel vuoto che squarcia il panorama e che ti lascia col fiato sospeso? Un respiro mancato, un battito in meno. L'adrenalina che prova il funambolo prima di affrontare la corda sospesa. La paura, la fottuta paura, di non poter controllare tutto. Il vuoto prima degli esami, quel sbriciolarsi dentro ai libri convinti di non saperne mai abbastanza, quel nodo in fondo alla lingua, che scivola in gola e più giù non va mai. La maturità che viene avanti e sembra non accontentarsi mai delle risposte che sei pronto a dare.
E' un po' quello che provo io stanotte.
Domani si entra in ospedale. Niente di grave. Tranquilli. Venerdì operano il Polpetta. Niente di grave. Tranquilli. Eppure penso a cosa provo. Un qualcosa di chiaramente soggettivo, in cui un battito manca sempre.
Perché il Polpetta ai miei occhi è piccolo, più piccolo del piccolo e io sono vulnerabile, più vulnerabile del vulnerabile. Perché quando una mamma porta un figlio in ospedale, transita dentro se stessa, e non indossa scarpe, non si porta dietro nulla per proteggersi dal freddo. Quel figlio in braccio la spoglia di qualsiasi difesa.
Io questo intervento ce l'avevo in programma e, più di un anno fa, ne ho vissuto un altro che programmato non era, eppure la differenza tra i due non si fa sentire. La paura c'è sempre, anche quando la ragione funziona benissimo.
Ricordo bene la prima volta. Ricordo quando mi sono seduta in sala d'attesa e c'erano altre mamme che mi guardavano mentre piangevo disperata, e mi consolavano. Ricordo il giorno dopo e quelle stesse mamme, sedute a raccontare, una ad una, il proprio perché. Ricordo una ragazza, molto più giovane di me, che attendeva una chiamata. Ricordo quanto fosse prezioso il cuore di suo figlio. In quel momento ricordo anche di essermi vergognata profondamente delle mie lacrime, perché il Polpetta stava male, ma di un male diverso, di un male minore.
E' che ogni tanto vorresti capitasse agli altri, e poi però ti volti e vedi che agli altri capita e, alle volte, capita peggio.
Dicono che da genitori si è preparati a tutto, e sì, posso dirvi che è vero, perché quando hai un figlio c'è una piccola parte di noi che è sempre ai blocchi di partenza, in attesa di un fischio e i nostri muscoli sono sempre tesi, caldi, pronti. Poi però c'è anche quella parte di noi che qualche volta perde il ritmo, quella parte che lo vorrebbe portare sempre e solo al parco giochi. E' la parte più irrequieta, quella più difficile da gestire, quella che ancora teme gli esami e che davanti alla commissione ci arriverebbe con la lingua insabbiata.

Stasera ripasso, mi concentro, prendo appunti. E domani si riparte, un'altra volta, un passo sulla corda e, se serve, un salto nel vuoto. E chi sostiene chi sarà solo una percezione dell'anima. Io sarò il suo abbraccio e lui il mio.

giovedì 11 settembre 2014

Coscienza materna: sfamarla, accudirla, addomesticarla.

Lo guardo mentre cerca di incastrare un pezzo di puzzle e lo fa al contrario, spinge con tutto se stesso mentre scodinzola col ciuccio. Allora mi avvicino, mi scappa un "no così, amore". Poi, proprio quando sono a un passo da lui, una voce alle spalle sussurra con fermezza "fatti i beati affari tuoi" e allora mi fermo e sto lì col fiato sospeso mentre, in piena autonomia, incastra il pezzo dentro il suo solco. Solo allora mi guarda, spalanca le mani, mi mostra i palmi e sorride felice.
Alle spalle, naturalmente, non ho nessuno, eppure la voce l'ho sentita. Penso alle ore di sonno che mi mancano, all'esubero di ritornelli targati Garinei e Giovannini che, sommati l'uno all'altro, mi hanno forse del tutto frantumato la logica. E invece scopro, che tra le costole mi è spuntata, grossa come un baobab, la più astuta coscienza materna. E che di tutti i mali forse è il minore perché per prima cosa modifica le opinioni che prima nutrivo con la saggezza di un maestro zen.
Perché prima si è sempre molto bravi. Alcuni anche dopo, ma questi fanno parte della categoria dei "perduta memoria", quelli che con un bimbo di tre anni affermano "il mio non ha mai pianto, il mio ha sempre dormito, il mio non ha mai avuto coliche" e sono casi clinici riconosciuti persino dalla sanità. Capiamoli e passiamo oltre.
Io non parlo per derivazioni, io dico la mia ed è ciò che sento e vivo e vale esattamente per quello che è: un nulla, del tutto personale.
Con l'arrivo del Polpetta è come se il mio cervello, che prima era un attico, si fosse diviso in tante piccole unità abitative. E in ogni stanza c'è mio figlio. Un'attesa. Un passo. Una parola. Uno sguardo. Una paura. Un senso di colpa.
Tanti sensi di colpa, che sono come i brufoli in adolescenza: ogni mattina ti alzi e te ne trovi due o tre stampati in fronte. Perché se non mangia ti improvvisi chef e sforni ottantadue pietanze diverse e, se non mangia ancora, ti lasci attanagliare da un solo pensiero: non so cucinare. Perché se non dorme gli dai la tetta, il sonaglietto, la bambolina e, se non dorme ancora, ti accasci dentro al cuscino con il suo pianto in un orecchio e la solita vocina malefica nell'altro, che ripete: non sono una brava mamma.
Perché si è sempre un po' subdole con se stesse, non ce ne perdoniamo una e anche quelle che in strada, o sul lavoro, o dalla parrucchiera, ti sbattono in faccia la loro inquietante perfezione - pure loro, fidatevi - se la fanno in ginocchio la preghierina della sera. Magari da sole, magari senza dirlo a nessuno, magari un secondo prima di dormire, ma tranquille che se lo sgranano pure loro il rosario dei materni riproveri: domani lo coccolo di più, domani gli compro un giochino nuovo, domani lo lascio giocare con il servizio di piatti che tengo sotto chiave...
E allora alle volte, quando siamo troppo stanche e ci gira male e vediamo che niente, ma proprio niente, ci sembra al posto giusto, invece di colpevolizzarci inutilmente e farci carico dei diverbi astrali che il nostro segno alimenta impunemente, prendiamo il bambolo e lasciamolo al papà, alla nonna, al vicino di casa single, bello e persino empatico quanto l'amica del liceo (io non ce l'ho ma ne sogno uno da sempre) e andiamo a farci un giro, a dormire due ore, a pascolare dieci minuti tra i nostri migliori desideri e diamoci pace. Ecco. Allora - solo allora - in quella pianura di schifosa serenità, la vostra coscienza si accuccerà ben bene tra il cuore e il polmone destro, e si addormenterà, lasciandovi per un po' libere di non pensare.
Poi, ovviamente tornerà, e vi suggerirà quando fare un passo indietro per lasciare al vostro bambino la possibilità di fare un passo avanti e vi tornerà utile e sarà spesso indispensabile. Va solo addomesticata, come gli spiriti della notte, come i draghi nelle favole, come i battiti del cuore.

venerdì 5 settembre 2014

Tra letture e congetture. Lasciatevi vivere.

E' difficile spiegare perché ho iniziato a scrivere, ma è forse più difficile spiegare perché mi sono allontanata dalla carta stampata (o similari) proprio in prossimità del parto (e del conseguente fatidico arrivo). Avevo la scusa dell'ingombro fisico, prima, e dell'ingombro mentale poi. Avevo una pacca di scuse buone. Invece è successo (più o meno) questo: ho deciso di vivere.
Ci sono persone che cercano conforto in un buon dio, altre in una buona pastiglia. Ognuno sceglie, alle volte inconsapevolmente, una maniera per tenere a bada le proprie paurebarrainsicurezze. Ecco, io mi sono nascosta per anni dietro ai libri. Non uno solo, tutti quelli che trovavo. Panorami che non tradivano mai le aspettative, figure in cui mi potevo rifugiare senza pericolo. Poi ho rigirato la questione e ho iniziato a scrivere e qui era ancora più figo perché la regia di ogni realtà ce l'avevo io e gli spazi bianchi da riempire sono sempre stati la mia specialità.
Poi sono rimasta incinta.
Il primo impulso emotivo è stato quello di correre in libreria. Ho acquistato tre libri, subito, senza studiarli troppo. Erano sullo scaffale giusto e questo mi bastava. Poi ci hanno pensato gli amici e a casa sono arrivati svariati autori famosi - che non citerò - di svariati libri altrettanto famosi.
E niente. Non ho letto una sola riga. A dire il vero ho provato a sfogliarli, più volte, ma un po' la stanchezza, che non mi aiutava a seguire il filo dei pensieri, e un po' l'ansia, che tutti quei concettibarraaspettative, mi montavano dentro ho preferito abbandonare l'impresa nella convinzione che poi, dopo la nascita, avrei trovato l'intenzione giusta per affrontarli. Mi sbagliavo ancora.
Quando è nato il Polpetta, io - che ricordiamoci bene il Polpetta non l'avevo programmato - ho deciso che avrei smesso di eludere la realtà, e che avrei provato a vivere questa nuova vita per come mi veniva offerta: dandomi fiducia.
Ho sbagliato una quantità immane di volte, ho imparato esattamente dai miei errori, ho capito cosa gli andava bene, ho capito cosa gli andava male, ho imparato a metterlo a dormire "alla sua maniera", non alla maniera d'altri, forse sto facendo quello che qualche luminare ha già indicato sapientemente in qualche manuale dalla brossura figa, ma non ne sono cosciente, sono però cosciente di ciò che sono io e il Polpetta non mi pare particolarmente turbato dalla cosa, ne deduco che non sta andando poi così male.
Non mi sto tessendo le lodi, perché se solo sapeste quante volte ho rincorso un dubbio con le lacrime in tasca - litrate di lacrime in tasca - capireste che ho talmente tanto coraggio in corpo che non mi prenderebbero neppure per doppiare Pollon.
Possiamo metterci d'impegno nell'applicare tutto quello che qualche tizio figo ha detto o scritto o testato, ma la felicità di mio figlio, il senso di amore che potrà avvertire nella sua crescita, nella sua vita, non potrà mai essere stabilito con precisione millimetrica. E possiamo perderci per ore a giudicare l'operato di un'altra madre, ma non saremo mai quell'altra madre e forse se l'altra madre fa diversamente da noi è perché non ha bisogno di fare come noi. Anche in questo caso l'equazione è piuttosto semplice e il risultato è altrettanto immediato: lasciatevi vivere.

Smettete di cercare una risposta prima di avere l'adeguata domanda e provate a fare ciò che sentite di dover fare. E se sbagliate, pazienza, vi assicuro che il salamino che portate appeso al collo sarà l'unico su questa terra a guardarvi senza giudizio.
Una cara amica - tre volte madre - un giorno mi ha detto: le madri si sentono inadeguate per una vita intera. Ecco, io credo che la vita intera in questione non sia la loro, ma quella del proprio figlio. Perché ci proviamo tutte a confenzionarli bene, ma l'incarto poi se lo tolgono da soli e noi possiamo solo star lì ad amare, da lontano, nella convinzione che non sono stati i dodici anni di cosleeping a renderlo migliore, ma la meravigliosa pasta di cui è fatto. Che è un po' la nostra e un po' la sua.

lunedì 1 settembre 2014

Uno per tutti, tutti per Uno. (fenomenologia dell'amore virale)

Non so voi, ma noi si divide sempre tutto in tre. Dividiamo in tre il pane, l'acqua e il raffreddore, se poi è accompagnato da febbre, beh, allora si applica il lusso della divisione a scaglioni di tempo: oggi io, domani tu e così via.
Potrei farne una teoria scientifica, tanto qualche buon'anima che prende per buono quello che scrivo io in questo mondo balengo ci deve pur essere.
Bene. Il Polpetta è quasi giunto al suo lustro e mezzo e quindi posso parlare con nozioni di causa, sempre che il virus della coincidenza non si sia preso gioco di me in questi mesi costellati di termometri, tiramuco, supposte e simpatici grannellini omeopatici di cui non parlerò, perché non so mentire.
Ricordo ancora quando mi hanno venduto il Papi, all'epoca ventenne dai capelli mechati, come un giovane stallone dal fisico imperturbabile. Ricordo di quando mi chiese, con aria innamorata e, oserei dire, vagamente interessata: "amore, cos'è un'emicrania?" e ricordo molto bene di quando arrancavo tra i miei malesseri mensili e lui mi fissava sviscerando l'empatia di un gambero di fiume. Era giovane, aveva tutta la vita davanti, ma soprattutto il Polpetta non lo incrociava neppure in sogno.
Ora. Al secondo giorno di tosse del Polpetta, il Papi crolla come un albero dell'Amazzonia sotto i colpi del machete e te lo ritrovi così che boccheggia dentro al letto col colore tipico di chi è prossimo all'imbalsamazione.
Al terzo giorno, poi, mi ammalo io. Fisso come la morte. E la mia è la malattia del guerriero.
Un tempo - sempre per cadere nel nostalgico - mi spalmavo dentro al letto ed invocavo la mamma e allungavo il brodo fin oltre il termine, perché una come me di starsene sotto la coperta a guardare il festival di Sanremo con la scusa dell'influenza - posso dirlo senza vergogna - non ne ha mai abbastanza.
Ora. Al primo sintomo di febbre spalanco l'armadietto dei medicinali e apro la rassegna stampa dei bugiardini. Alla voce allattamento tutti mi cazziano e quindi ovviamente non prendo nulla, però - lo ammetto - ci provo tutte le volte. Perché l'idea di stare male e nel contempo di dovermi occupare di tutto il contorno un po' mi spaventa e allora cerco il mago della lampada dentro tutti quei flaconcini colorati. Ma niente, non esce nessuno dal blister del paracetamolo e allora mi incammino sospirando verso il resto della ciurma che sguazza dentro al proprio muco come una nave dentro la tempesta.
Vi risparmio la descrizione del passato natale, dove la gastroenterite aveva raso al suolo il menù di mia suocera. Ventisei portate, più contorni, buttate alle ortiche e una suocera in analisi fino all'Epifania.
Del resto io e il Papi non siamo sposati e il Polpetta fa da promemoria ogni sacrosanto giorno, come un postit appeso in fronte, ci ricorda che non basta il mutuo a unirci nel bene e nel male, che la condivisione familiare è fatta anche di massaggi al pancino fino a notte fonda, io a te, tu a me e lui a noi.
Le mani sono sei, gli scambi di favori procedono per moltiplicazione.
E così ti ritrovi a tirare la ciabatta verso il gas, a metter su l'ennesima camomilla per un Papi che la vuole zuccherata ma non troppo, calda ma non troppo. E poi porgi la tetta al Polpetta e ti lasci scardinare un orecchio purché cada in un sonno profondo. E poi ti misuri la febbre e scopri che è scomparsa, che sei guarita e che non hai avuto neppure il tempo di rendertene conto, che il mago della lampada è venuto in tuo aiuto e che non era nascosto nei meandri di nessun flacone, ma ce l'avevi dentro tu, bastava solo sfregarti un po'. Lì dietro, in mezzo alle scapole, dove dall'altra parte batte il cuore.

venerdì 29 agosto 2014

Cucciolandia e i suoi abitanti #iostocondaniza

In fatto di hobbistica a casa ce la giochiamo bene. Io ho i miei bei pruriti creativi, che intasano ogni angolo spoglio, e il Papi ha le sue turbe esistenziali, che lo inducono a fuggire su per i boschi un giorno sì e un giorno anche. Che le due cose siano legate non è cosa da definire ora.

Dai suoi boschi arrivano i filmati che gira e questo è fresco di qualche giorno fa.
No, non è Daniza. E' un'altra mamma.

Qui trovate la meravigliosa passeggiata di una mamma col suo cucciolo.

Pochi secondi di loro. Pochi secondi di noi.


#iostocondaniza

mercoledì 27 agosto 2014

dedicato ai bambini del mio cuore (e non solo)

E' difficile fare le cose difficili, parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco.
Bambini imparate a fare le cose difficili, dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi.

Gianni Rodari


Oggi sono sintetica, e forse anche un po' triste. Con me sintesi e tristezza vanno di pari passo. E allora ripenso alla mia infanzia, mi immalinconisco un po' e poi però rivedo le pagine di Rodari, il suo sogno dentro ai miei occhi e penso che tutto può fiorire e ci voglio credere ancora, ora come allora.

Perché l'infanzia è un luogo sacro dove tutto può fiorire. Dove tutto deve poter fiorire.


sabato 23 agosto 2014

Imum, Iwork, Istanc. Le migliori app di un cervello da mamma.

C’è chi decide di rientrare al lavoro per poter dare (e fare) di più e chi invece non vorrebbe farlo e si ripete, con le preghierine della sera, “la prossima vita rinasco ricca e magra”.
E così dopo mesi di assenza lavorativa ti ritrovi a varcare la soglia dell’ufficio e scopri che ti occuperai della potatura delle felci, e non reagirai perché sarai ancora obnubilata dall'odore di tuo figlio, e lo immaginerai angosciato che piange appeso al vetrata dell'asilo e i tuoi riflessi saranno rallentati al punto giusto, il tuo cervello si sentirà in debito e accetterai di buon grado ogni compito assegnato. Ci sarà poi - dopo qualche giorno di permanenza - la madre che diserberà le felci e invocherà tutte le forze terrene per riavere indietro i suoi preziosissimi ventisei faldoni a righine blu e la madre che invece imparerà ad amare ogni fogliolina messa a sua disposizione, perché il bonifico a fine mese le risulterà un'ottima motivazione per collaborare alla fotosintesi clorofilliana di quei poco loquaci vasi in rattan.
In entrambi i casi la mamma tornerà a casa con un solo scopo: accocolarsi sotto il naso del suo piccolo uomo, contarne le caccole, accertarsi che tutto sia in ordine, e dimenticarsi rapidamente di ogni qualsivoglia dinamica lavorativa.
Le priorità improvvisamente cambieranno e smisterai ogni problema come dentro ad una sfida a shangai. Sfilerai dal mazzo le perturbazioni mentali della collega prossima alla menopausa con una leggerezza che prima non ti saresti minimamente permessa di adottare. Grazie a questo meccanismo di scarto che, allargando il suo campo di azione smercia la metà delle cose che prima inutilmente ti angosciavano, riuscirai ad avviare una lavatrice, ringraziare madama Peppa Pig che ipnotizzerà tuo figlio mentre gli infilerai in bocca 250 gr di passato di verdure, passarti la pinzetta sulle sopracciglia, postare una foto su facebook, stirare due camicie e sbattere in aria otto magliette fingendo di averle stirate... nella convinzione più ferrea di aver steso così bene da non doverle neppure piegare. E così le lascerai lì, sulla sedia, in attesa di essere direttamente indossate.
Il cervello ti scaricherà gli aggiornamenti in automatico, anche quando ti sembrerà di essere così stanca da non poterti neppure spogliare e ti addormenterai così, con gli stessi pantaloni con cui sei andata al lavoro e la mattina ne gioirai perché il tempo risparmiato per vestirti sarà tutto dedicato all'eyeliner che da mesi bramavi di poter riutilizzare.
Questo è un ovvio autogol, ora quelle rare volte che mi vedrete truccata come un'opera di Gauguin, guarderete i miei pantaloni e vi chiederete se sono il refuso di una notte passata a dormire all'addiaccio e vi salirà il pensiero che forse quella della mamma è un'esistenza difficile, a tratti impossibile. Eppure devo smentirvi.
Ci sono giorni, settimane addirittura, in cui la stanchezza sembra un guerriero ninja che mi insegue per colpirmi insistentemente alle tibie. Giorni in cui i problemi si fanno più complessi e i sospiri prendono il posto dei respiri. Giorni in cui vorrei premere un tasto - uno qualsiasi - per spegnere tutto e riavviare il sistema. E poi però ci sono notti in cui mi alzo, senza che nessuno mi abbia chiamato, vado in bagno, faccio pipì e, mentre torno a letto, mi affaccio alla sua camera, lo guardo che dorme scoperto, con un piede in verticale, il ciuccio infilato in un occhio e la piega del cuscino tatuata sulla guancia e , ricomincio a respirare, come si deve, come il ritmo del suo cuore mi detta nel silenzio perfetto della notte.
Perché ora le regole le dettano loro e questa, forse, è la nostra più grande fortuna.

martedì 19 agosto 2014

Io sto con Daniza. Perché essere mamma non è un reato. #iostocondaniza


Vivo tra i monti, i funghi li guardo come guardo i fiori, posso quindi capire chi naviga tra i boschi come una barchetta in mare aperto. Capisco anche chi ci vive nei boschi, o almeno provo ad allargare il mio campo visivo e a mettermi a fissare ogni spazio, senza morbosità, ma con quel piglio curioso che hanno i cuccioli. Chiudo gli occhi.
Ok. Ci sono.
Mi volto, e vedo la mia mamma, imponente come una nave e mi sento bene, annuso l'aria e lei è lì con me. Sempre. Questo penso, da cucciolo d'orso. Non penso che da grande dovrò percorrere chilometri in solitaria, non considero il fatto che poi la mamma si allontanerà lasciandomi pronto ad affrontare la vita. Non penso che gli uomini mi vedono come qualcosa da avvicinare, o da allontanare. Gli uomini. Quelli grandi.
Forse se incontrassi un bambino lo annuserei e forse anche lui mi annuserebbe. Perché tra cuccioli è così. Gli uomini. Quelli piccoli.

Io sto con Daniza, perché se la incontrassi lungo i sentieri di un bosco me la darei a gambe levate, pur sapendo che è consigliabile stare fermi. Perché forse pure lei, se vedesse come vado in giro conciata, scapperebbe su per il pendio opposto. Perché dovremmo tutti toglierci di dosso quella bella piega fatta col phon e vivere più a fondo il nostro essere un po' selvatici, arruffati, primari in tutto. E' lì che la vita prude, dove ci si allontana da tutto, dalle regole, dall'educazione, dalle decisioni ferree, dalle curiosità morbose. E' lì che Daniza vive, in quel punto preciso in cui la vita pulsa. E io tifo per lei, perché anche lei è stata colpita dalla mammamorfosi, perché anche lei per i suoi cuccioli darebbe la vita e perché il Polpetta con il suo orso ci va a nanna e per il suo orso graffierebbe il naso a qualsiasi essere umano. Perché gli animali sono come i bambini, difendono ciò che sentono proprio e lo fanno a qualsiasi costo e forse questa è la prima regola della vita, quella che ci sfugge e di cui troppo spesso ci dimentichiamo in nome delle buone maniere.
E io che sono una cialtrona, una maleducata, una che se ne fotte delle regole, una che vive, posso dirlo un'altra volta ancora: #iostocondaniza

venerdì 15 agosto 2014

Voce del verbo s-mammare

Quando penso a com'ero nell'a.p. (avanti polpetta) mi lascio affascinare dai ricordi della leggerezza. Quel non dover pensare a niente e, per contro, quel doversi tenere per forza occupati. Forse perché la noia si porta sempre appresso una processione di pensieri. Forse perché a vent'anni c'è l'urgenza di vivere tutto. Subito. Come se non ci fosse altro tempo, altra possibilità, altra scelta.
E poi magari arriva un bambino - e per una donna il margine temporale della procreazione è sempre ben definito - e ciò che prima riuscivi ad infilare tra un aperitivo e due ore di palestra, poi si perde nel buio del caos esistenziale.

Il bambino nasce e il papà lavora e quando torna a casa è stanco e quindi se una sera decide di uscire, esce. Lavora. Fatica. Deve sgranchirsi il cervello.
Il bambino nasce e la mamma è a casa, che allatta, e cucina, e si lima le unghie (sempre che nel frattempo non non le abbia ingoiate con le falangi) e quindi se una sera decide di uscire, non esce. Allatta. Fa la mamma. Il suo cervello può infeltrire lentamente, anzi, c'è chi ha l'ardire di pensare che non ne possieda neppure uno.
Una mamma alla sera si arrampica come un herpes dentro la coperta di pile e si ripromette di prendersi del tempo per se stessa, il giorno dopo. Sempre il giorno dopo. Qualche volta si sveglia con la testa che pesa e, come se stesse smaltendo una pesantissima sbornia, si guarda allo specchio cercando nei ricordi della notte passata qualche uscita scapestrata, qualche dinamica eccitante, ma niente, solo ninne e nanne dai mille colori e un marito che dorme generosamente perché, a suo dire, neanche con un buon amplifon riuscirebbe a sentire la filodiffusione del filiale pianto notturno.
Eppure lo spazio materno è quello spazio bianco che ogni donna dovrebbe sparecchiare per ridare aria al cervello.
Perché se una mamma abbandona il pargolo per una seduta di shopping, una passeggiata in montagna, due ore di pittura, non è una sciagurata. Perché una mamma ce l'ha un cervello da sgranchire. Perché essere mamma è un lavoro. E perché una donna che dipinge è una donna che dipinge, se poi è una mamma è una mamma che dipinge, non è una donna che non fa la mamma.
Spesso l'equazione si sfilaccia durante lo svolgimento e quindi è meglio parlarne.
Già. Già.
In questi mesi ho conosciuto donne appassionate, donne che pur lavorando dietro la cassa di un supermercato, nutrivano nel proprio caos esistenziale l'opportuna necessità di sparecchiare il proprio destino. Madri, tutte madri, che allattavano progettando un nuovo braccialetto da annodare, un nuovo sentiero da esplorare, una nuova tela da sporcare.
Io, per mesi, ho lasciato il cervello parcheggiato in garage, e il mio era un garage sotterraneo, un antro buio e pieno di echi oscuri. Credevo di non potermi concedere più il lusso di scorrazzare libera dentro a un foglio bianco, senza mio figlio accanto. Quel senza mi incuteva paura, a tratti stanava pure un'ombra di vergogna. Per mesi mi è parso impossibile potermi allontanare da lui, poi un giorno mia madre mi ha cacciata di casa, si è presa mio figlio, ordinandomi di s-mammare (mai verbo cadde con più naturalezza dentro alla mia storia). Sono stata via trentadue minuti, non un secondo di più, e quando sono tornata ho trovato il Polpetta che, felice, si ciucciava il piedino. E poi sono arrivata qui. Su questo spazio bianco a gesticolare un po' sui fatti miei pensando di parlare a due anime - che invece non sono proprio due - e a spaccare noci con la fronte per tenere sveglio un cervello che pensa, soffre, sbaglia e ancora però si appassiona pesantemente alla vita. Perché l'urgenza di quei vent'anni mi prude ancora sotto ai piedi e si ostina a voler consumare tutto - proprio come allora - subito. Immediatamente. Come se non ci fosse un domani. Il mio domani.

giovedì 7 agosto 2014

A 1 passo dal Noi.


Spesso, durante i nove mesi di attesa, ho pensato che l'utero fosse ubicato esattamente dietro la corteccia cerebrale. Ogni pensiero, ogni azione, ogni riflesso, partiva seguendo il medesimo rito. Mi stiracchiavo i reni. Mi stropicciavo gli occhi. Mi accarezzavo la pancia. Magari di nascosto, sotto la scrivania, giusto perché non si notasse troppo quello stato di materna dolcezza che mi prudeva sotto l'ombelico. A tratti mi infastidivo, cercavo di sembrare uguale a prima, mi infilavo gli stessi jeans a vita bassa, scivolavo dentro a gigantesche maglie oversize, e scansavo quelli che mi volevano toccare la pancia. Io mica ero abituata a sentirmi così priva di spigoli, così rotonda.
Il test di gravidanza sfilato dal borsone da tennis e mostrato all'amica in mezzo ad un parcheggio vuoto, la domanda: dici che è sbagliato? dici che non funziona?, e l'amica che risponde - cauta - con un abbraccio stritolaossa. E poi la nausea, la sciatica, il reflusso gastrico, l'insonnia, le partite notturne a ruzzle, il raffreddore mortale, l'omeopatia fallibile, il bagno nella vasca con la pancia che fuoriesce dall'acqua, con la pancia che si riempie d'acqua. E il nono mese, quello del calendario che ogni mattina cancella un giorno all'attesa, quello dei sussulti inutili, quello dei dolorini strani, quello del "ci penso ma anche no", quello delle ultime fotografie al pancione, quello delle attenzioni paterne, quello della paura segreta.
Ho sempre pensato di non essere predisposta all'attesa. Aspettare era un verbo che non consideravo. Le perdite di tempo le scansavo e ciò che non generava un moto fisico era percepito dal mio corpo come un fastidio. In realtà i nove mesi di attesa sono stati l'attesa più dinamica a cui ho dovuto partecipare. E sono serviti tutti al mio cervello per decriptare quella nuova presenza. Tra me e il Polpetta c'era una membrana di vuoto cerebrale che non riuscivo a riempire a sufficienza. Non capivo quale tipo di madre sarei stata e, a dirla tutta, non lo so neppure ora.
Quando mi dicevano "vedrai, poi ti mancherà il pancione" assumevo la postura da film western e imbracciavo il fucile, niente mi sembrava più assurdo di un'affermazione nostalgica. In realtà qualcosa accade - non subito, non nell'immediato - il cervello lancia l'antivirus e rimuove l'inutile senza cancellare i ricordi. E così ti ritrovi poi a guardare un'altra parentesi materna, a sospirare (di nascosto) dentro a uno sbadiglio, a cercarti l'ombelico (di nascosto) sotto la scrivania e a ripensare che quella curva così priva di spigoli, così rotonda e perfetta possiede in realtà il fascino che solo le grandi attese svelano a un passo dallo stupore, a un passo dalla rivoluzione, a un passo dal noi.

venerdì 1 agosto 2014

Piove, piove, la gatta non si muove.

Ho atteso qualche settimana prima di dedicarmi a questo post. Monitoravo facebook, guardavo le foto di spiagge assolate e piedi abbronzati e manzi stretti dentro opportunissimi costumini fluo e, come la vecchia strega di Biancaneva lustravo la mia bella mela rossa gracchiando: tornereteee! oh, se tornereteee!
Ecco. Ora che a quelli tornati si è spenta l'abbronzatura e che a quelli in partenza spetterà il mio stesso cielo incontinente posso sentirmi pronta nel condividere la mia claustrofobica clausura materna.
Piove. Su tutta Italia, o quasi, ma di quel quasi non mi voglio neppure interessare perché ciò che non può essere mio è fonte di perturbazione psicologica. Guardo mio figlio con la pelle candida da Edward Cullen che sbava e si contorce per l'arrivo dei canini e temo, temo che questo lungo inverno mi stia solo preparando all'arrivo dei Volturi. Controllo le mie occhiaie allo specchio e mi dico che non c'è un sonno adeguato a questa stanchezza, che l'unico riposo che al mio corpo permetterebbe di assorbire tutto questo caos estetico sarebbero dodici giorni di sole che, puro, si spalma come nutella su ogni cm del mio corpo. La buccia d'arancia ha lasciato il posto alla pelle d'oca e, francamente, non so cosa sia peggio.
Il problema però è un altro. Il Polpetta è alla finestra, appeso al vetro con le sue diaboliche manine a ventosa. Invoca il parco giochi mentre fuori piove e piove e piove. Lo stacco, lo riporto sul suo tappettino colorato e dico per la centoventiquattresima volta "giochiamo!", lui mi guarda con aria incerta, si pigia gli occhi per strizzarci fuori due lacrime in più e aspetta. Io lo guardo e improvviso, ma l'entusiasmo nel frattempo ha ceduto il passo alla stanchezza e risulto allettante quanto una pizza congelata. Il libretto! Ecco, leggiamo il libretto! I cubetti! Ecco, facciamo una torre con i cubetti! Gli animaletti! La pallina! I cerchietti colorati! Il secchiello! Il cavallino! La macchinina! Le padelline! L'orsetto! Il martello! La televisione!
Tutto. Fatto tutto. E fuori piove. Ancora.
La sera arriva e striscio dentro al letto come un viet cong. E risparmiatemi i suggerimenti indigesti di chi conosce ottantatue metodi didattici per tenerli adeguatamente occupati, il Polpetta ha sedici mesi ed è in quell'età dove esplora e conosce e nell'esplorare e nel conoscere riesce ad infilarsi in ogni anfratto, e se trova qualcosa, prima lo guarda e poi lo ciuccia mentre medita se ingoiarlo o meno. Certo, la casa è sicura come il caveau di una banca svizzera, pertanto niente è a portata di bambino. I mobili sono chiusi con la catena della bici, i giochi sono calibrati alla sua età, tutto è a sua immagine e somiglianza. Tutto.
Ma i bambini sono esseri superiori. Il Polpetta da giorni studiava silenziosamente la mia borsetta appoggiata sul davanzale della finestra. La guardava e non chiedeva, non indicava. Oggi improvvisamente si è alzato e con passo da calzino peloso è andato fin sotto il davanzale. Il Polpetta è un sedici mesi taglia XXL e pertanto è molto alto, ha allungato la mano, si è tirato in braccio la borsetta, ha infilato un ditino nel minuscolo spazio ad inizio cerniera e ha scoperto che per aprirla bastava far strisciare con forza la manina. Ecco. Io, che stavo facendo pipì, ho avvertito nel silenzio di casa un misterioso alone di paura. Allungando il collo oltre il bidet ho visto riflessa nello specchio l'operazione del piccolo ladro e ne sono rimasta affascinata. Soddisfatto ha dato una leccatina al mio cellulare, ha stracciato con aria divertita dieci nuovissimi fazzoletti di carta e si è messo a blaterale in cambogiano quando ha trovato le chiavi di casa.
Mi lascio quindi questo orrido lugliembre alle spalle meditando sulla clausura materna. Il marito che torna quando si fa sera e ti dice che sei fortunata a stare a casa con vostro figlio, che lui invece al lavoro ha incontrato una svariata quantità di idioti e che pagherebbe per fare a cambio. Tu gli dedichi sei secondi netti di attenzione in cui lo vedi aprire la velux, issarsi sul tetto e dire in fretta al bambino "esco a prendere le sigarette. torno subito!". 
La quotidianità è un puzzle di meraviglie e fatiche che si incastrano alla perfezione.

E' uscito un raggio di sole, la mia pupilla si è stropicciata di fastidio e il Polpetta, davanti alla finestra, ha iniziato a brillare come un piccolo swarovski. Me lo carico in spalla e corro al parco giochi, mentre aspetto l'arrivo dei Volturi.

E comunque - per la cronaca - non trovo più cinquanta euro. Per dire.